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| Il mitico duello sul Puy de Dome al Tour de France del 1964 |
Cuore,
grinta e umiltà. Tanta umiltà. Nel grande libro del ciclismo
Raymond Poulidor è conosciuto universalmente come “l'eterno
secondo” per antonomasia. Nella sua carriera lunga la bellezza di
diciotto stagioni, dal 1960 al 1977, ha incrociato le ruote con
campioni del calibro di Merckx e Gimondi, Ocaña e Bahamontes, anche
se con un avversario in particolare ha dato vita ad una delle
rivalità più avvincenti della storia: Jacques Anquetil.
Raymond
e Jacques. Jacques e Raymond. Mai due uomini furono così
diametralmente opposti da divenire imprescindibili. Jacques aveva
ereditato l'eleganza degli antichi signori normanni; Raymond la
sobrietà dei contadini del sud. Jacques nella vita si permise tutto
e di più, anche d'avere una bambina dalla sua figliastra e un
bambino dalla moglie del figliastro; Raymond ha sposato la postina
del suo paese, il borgo medievale di Saint Léonard de Noblat,
passaggio fondamentale nel cammino per Santiago di Compostela.
Jacques a fine carriera si ritirò in un castello sfarzoso, la 'Villa
degli Elfi', appartenuta in passato al poeta Guy de Maupassant;
Raymond come una formichina ha messo via soldi per tutta la vita
tanto che la Mercedes, marchio di cui è testimonial, gli ha regalato
una macchina nuova quando la sua ha toccato i seicentomila
chilometri, altrimenti prima o poi sarebbe rimasto ai piedi. Jacques
era diffidente e schivo nei riguardi di tutti; Raymond aveva sempre
la battuta pronta. Jacques possedeva i lineamenti affilati e gli
occhi di ghiaccio; Raymond la faccia quadrata e i tratti
mediterranei. Jacques, perfettamente immobile e aerodinamico,
sembrava guidare la bici lungo un binario; Raymond, da scalatore
puro, la scuoteva come una ballerina di boogie. Jacques che si
prendeva tutto, Record dell'ora compreso; Raymond che dovette
accontentarsi delle briciole, e a volte nemmeno di quelle.
Non
impiegarono molto tempo i tifosi transalpini a scegliere da che parte
schierarsi: in uno sport come il ciclismo che vive di duelli e
antitesi, Poulidor rappresentava l'eroe umile e un po' sfortunato in
cui i francesi, da sempre allergici a re e noblesse,
si riconoscevano perfettamente. Pur non vincendo quasi nulla, nel suo
Paese è diventato così popolare da essere inserito addirittura nel
gergo lessicale: in Francia infatti è ormai consuetudine dire 'il
Poulidor della politica', 'il Poulidor dell'economia' per raccontare
situazioni in cui il secondo appare più simpatico del primo. Émile
Besson, giornalista che curava la pagina del ciclismo su Le
Midi Libre,
aveva coniato per lui anche un nomignolo affettivo, 'Poupou',
abbreviazione del gioco di parole 'poupoularitée',
che calzava a pennello col suo personaggio. Nonostante abbia appeso
la bici al chiodo da qualche decennio, è ancora oggi il più
ricercato dai tifosi per un autografo o una stretta di mano su tutti
i traguardi del Tour de France e lui, arzillo settantenne dal folto
ciuffo bianco e gli inconfondibili occhiali da vista con le lenti
scure, sembra continuare a divertirsi in quel ruolo di superstar che
lo strano destino gli ha riservato.
La
favola di Raymond Poulidor è partita da molto lontano, in un
microscopico villaggio dal nome impronunciabile disperso tra le verdi
campagne del Limousine, ai piedi del Massiccio Centrale. Tanto lavoro
e poca istruzione, era quella la dura realtà nella Francia a cavallo
tra gli 'Années
folles'
e la Seconda Guerra Mondiale. Arrivò
tardi al ciclismo professionistico, nel 1960, quando aveva già
compiuto ventiquattro anni, perché nel frattempo era stato costretto
a prestare servizio militare nel Nord Africa per ventotto
interminabili mesi. Era l'epoca in cui le colonie francesi del
Maghreb rivendicavano l'indipendenza dalla madrepatria e 'les
enfants de la Patrie',
tutti o quasi di umile estrazione, furono spediti armi in mano per
sostenere un braccio di ferro che la Francia stava lentamente
perdendo. Dall'Africa quindi se ne tornò a casa coi fantasmi della
sconfitta che l'accompagnarono per tutta la sua vita sportiva.
Fu
il grande Antonin Magne a credere in lui offrendogli un contratto per
la Mercier, la squadra per la quale corse l'intera carriera,
conclusasi a quarantun anni.
Il
suo esordio fu decisamente buono, coronato con il quinto posto
ottenuto ai mondiali di Karl-Marx-Stadt, roccaforte socialista della
Germania Democratica, con l'epilogo sul circuito del Sachsenring. Il
primo colpo invece lo mise a segno nel '61, quando anticipò a
sorpresa tutti i favoriti sul traguardo della 'Sanremo' sferrando
l'attacco sul Poggio, inserito per la prima volta da Vincenzo
Torriani proprio quell'anno per rendere ancor più avvincente ed
indeciso il finale della classica italiana. E pensare che Poupou
aveva già perso le speranze di vincere quella corsa. Sul Capo Berta
forò,
dovendo attendere più del previsto l'arrivo dell'ammiraglia per il
cambio della ruota; così si era già seduto all'interno
dell'abitacolo convinto di ritirarsi, quando Magne l'esortò a
ritornare sulla bicicletta. Sfruttando un rallentamento del gruppo di
testa, Poulidor recuperò incredibilmente il distacco e sul Poggio,
ultima fatica di giornata, lanciò un attacco sfrontato. Sembrava
aver acquisito un distacco tale da assicurarsi la vittoria, ma la sua
avventurosa 'Sanremo' quel giorno aveva in serbo per lui un ultimo
sussulto in vista dell'arrivo. Durante le ultime curve, un
carabiniere errò la segnalazione, indirizzandolo in un'altra via e
costringendolo a girare la bici e ricominciare da capo la propria
progressione, col gruppo che si faceva sempre più minaccioso alle
sue spalle. Aveva sentito il ronzio delle loro ruote che fendevano
l'aria dietro l'ultima curva, ma senza perdersi d'animo riuscì a non
farsi inghiottire dalla voragine conservando tre miseri secondi. Fu,
assieme alla Vuelta del '64, l'unica gioia di una carriera fatta
d'inseguimenti e sogni infranti.
Nel
1962 il giovane contadino del Limousine si presentò a Nancy per la
partenza del suo primo Tour de France, ignaro che su quelle strade
stesse per sfidare nient'altro che l'allora re di Francia e del
ciclismo mondiale, Jacques Anquetil. Dopo un sogno lungo più di
trent'anni, quell'anno il Tour si era bruscamente risvegliato senza
vedere alla partenza le mitiche squadre nazionali. Jacques Goddet,
storico patron della corsa, aveva infatti ceduto alle pressioni degli
sponsor riaprendo la competizione alle squadre di club. Quindici team
raccolsero la sfida: sette francesi, sei italiani e due belgi; ma
rispetto al passato, erano quasi tutte aziende impegnate in settori
che non avevano nulla a che fare col mondo del ciclismo. Tra le più
quotate c'era la francese Saint-Raphaël, che schierava al via
Anquetil e i futuri campioni del mondo Altig e Stablinsky, e
l'italiana Ignis con Nencini, Baldini e Pambianco, vecchi vincitori
del Giro. La Mercier di Antonin Magne invece riponeva tutte le
speranze sul giovane Poulidor, il quale accese la miccia di
quell'edizione durante la diciannovesima tappa, da Briançon ad
Aix-les-Bains.
In
maglia gialla c'era il belga Jo Plankaert, braccato in classifica da
Anquetil. Per il francese si trattava di una frazione da disputare
sulla difensiva, dato che sulla carta soffriva più del belga i ritmi
troppo elevati in salita. Voleva evitare a tutti i costi la bagarre
per risparmiare più energie possibili in vista della cronometro del
giorno successivo, dove aveva già pianificato il ribaltone secondo
un canovaccio che si ripeteva ormai da qualche stagione. Le Alpi
francesi però, con la loro solennità e le numerose trappole
nascoste tra saliscendi di polvere e sterrato, erano un richiamo
troppo forte per i corsari dell'impresa e così il giovane Poulidor,
incurante delle dinamiche che governavano la corsa, scatenò la
battaglia campale rompendo l'alleanza francese in favore del nemico.
Il primo ad andare alla deriva fu proprio Anquetil, seguito ben
presto dal capoclassifica Plankaert, mentre più avanti cedettero il
passo anche gli specialisti della montagna come Bahamontes, Gaul e
Massignan. Poupou arrivò tutto solo con 2'30" di vantaggio su
Anglade e Bahamontes, risalendo al terzo posto in classifica mentre
Anquetil, giunto al traguardo con più di tre minuti di ritardo, si
limitò ad uno sguardo torvo. Jacques era uno che non dimenticava e i
suoi silenzi erano più pericolosi di tante parole, tant'è che
l'indomani avrebbe distrutto la concorrenza nella cronometro di
Lione, andando a vincere il terzo dei suoi cinque Tour.
Quel
giorno Magne, mentre seguiva l'esercizio del suo pupillo
dall'ammiraglia, aveva visto comparire in fondo ad un falsopiano
all'uscita di un piccolo villaggio un'ombra nera che si faceva sempre
più minacciosa alle loro spalle. Era Anquetil che, una volta apparso
dal polverone alzato dal seguito di macchine e moto degno di un re,
superò impietosamente il corridore della Mercier col chiaro intento
di volerlo umiliare dopo l'affronto della tappa precedente.
«Spostati
Raymond! - esclamò il direttore sportivo. - Sta passando una
caravella».
Raymond, nonostante in quell'occasione perse cinque minuti dal
campione normanno, concluse comunque al terzo posto il Tour a dieci
primi dalla maglia gialla; ne aveva lasciati per strada otto solo
nella prima tappa, sofferente per un dito rotto della mano.
Dietro
a quelle cifre apparentemente insignificanti, stava prendendo forma
la rivalità che avrebbe diviso la Francia negli anni successivi. Non
solo. Proprio in quella circostanza, il diabolico Anquetil aveva
giurato a sé stesso che finché ci fosse stato lui in gruppo, il
giovane rivale non avrebbe messo le mani sul Tour de France, costi
quel che costi.
Nell'edizione
del 1963, oltre alle consuete cronometro, Anquetil impartì una dura
lezione a Poupou anche sul suo terreno preferito, la salita. Raymond
aveva chiuso quel Tour con un anonimo ottavo posto, salvo tornare
protagonista nella corsa che più amava nel 1964. Nel mese d'aprile
aveva vinto la Vuelta, mentre Anquetil a maggio si era imposto al
Giro; sulle strade francesi dunque, si sarebbe consumato il duello
che metteva in palio la supremazia mondiale.
Fino
al termine della penultima settimana di corsa, le trame del Tour
portarono alla ribalta la favola del carneade Georges Groussard, che
aveva sfruttato il vantaggio acquisito durante una fuga nelle prime
tappe per conquistare la maglia gialla. Nel frattempo la classifica
alle sue spalle si era decisamente scossa, coi due galletti francesi
che si erano già beccati e contesi preziosi secondi d'abbuono
finché, come da copione, nella cronometro di Bayonne che apriva
l'ultima e decisiva settimana, Groussard si fece da parte. Lì
Anquetil precedette di 37" Poulidor - che aveva perso tempo
prezioso a causa di una foratura - riuscendo a conquistare anche la
maglia gialla con 56" di vantaggio sul rivale.
Stava
entrando nel vivo quello che per molti sarebbe stato il Tour più
bello della storia. Dopo due tappe transitorie, venerdì 12 luglio
era in programma l'arrivo sul Puy de Dôme, un vulcano spento da
millenni tra le foreste dell'Alvernia, nel cuore della Francia. Se
Anquetil fosse uscito in maglia gialla al termine della giornata,
avrebbe vinto verosimilmente il Tour, dato che dalla sua aveva la
cronometro finale di Parigi. Il gruppo approcciò ancora numeroso
l'ultima salita, ma lungo la spirale che attorcigliava con sempre più
veemenza il cono vulcanico fino al cratere, la selezione fu subito
importante. Gli spagnoli Jimenez e Bahamontes lasciarono ben presto
la compagnia, inscenando la loro danza sui pedali al ritmo di
fandango. Si trattò di un grave errore per Poulidor che,
concentratosi soltanto su Anquetil, lasciò andar via gli iberici
perdendo la possibilità d'arraffare il prezioso minuto d'abbuono in
palio per il vincitore.
Ma
i due francesi, pur staccati, diedero vita ad uno dei duelli più
memorabili della storia del ciclismo. Raymond sapeva che doveva
staccare il suo avversario, mentre Jacques era consapevole che non
doveva mollare la sua ruota: soltanto uno dei due sarebbe riemerso
vincitore da quel purgatorio dantesco raggiungendo le porte del
paradiso. Dopo una prima fase di studio, aumentarono gradualmente la
loro velocità, fino a dar vita negli ultimi chilometri ad
un'interminabile volata in salita. Nessuno era intenzionato a cedere,
figuriamoci a mettersi alla ruota dell'avversario; sarebbe stato un
disonore. Così scalarono tutto il Puy de Dôme spalla a spalla, le
loro ruote appaiate, cercando con la coda dell'occhio un barlume di
crisi nelle gambe dell'avversario. Tanto lontani nella rivalità e
tanto vicini nella fatica da sbandare vistosamente e urtarsi più
volte per restare in equilibrio sui loro mezzi. Anquetil aveva scelto
il lato interno, quello più vicino alla parete ribollente del calore
dei gas che scorrevano nel cuore della montagna; Poulidor il lato
esterno, quello più vicino al precipizio. Parevano due serpi che
s'attorcigliavano l'un l'altra in una danza mortale, due pugili così
suonati da sostenersi vicendevolmente mandando cazzotti a vuoto.
Negli ultimi metri Raymond riuscì a distanziare l'avversario, che al
traguardo aveva smarrito l'aspetto signorile del suo volto perdendo i
sensi per qualche istante. Quando li riacquistò, udì da qualche
parte attorno a sé le parole del suo direttore sportivo Gémignani
che lo rincuorava annunciandogli d'aver conservato la maglia gialla
per 14". Stravolto ma lucido, in quel momento capì che aveva
vinto il Tour, sigillato due giorni dopo nella cronometro di Parigi.
Poulidor,
in un primo momento, gli mise paura anche nella prova contro il
tempo, salvo perdere inesorabilmente terreno nella seconda parte
dell'esercizio.
Maître
Jacques
vinse il Tour con 55" di vantaggio, facendo registrare il nuovo
scarto minimo tra i primi due classificati nella storia della Grande
Boucle.
In
realtà Poupou, che aveva ormai dalla sua il tifo di tutti i
francesi, era tornato a casa con un grande rammarico. Durante la nona
tappa con arrivo a Monaco, aveva preso per primo l'ingresso finale al
velodromo, ma non sapendo che si dovesse compiere un giro completo
della pista si fermò una volta superata la linea del traguardo
credendo d'aver vinto. Alle sue spalle partì come una scheggia
Anquetil, che andò ad imporsi nello sprint a ranghi ristretti
guadagnando un minuto d'abbuono che alla fine si rivelò decisivo.
In
base alle ottime impressioni destate nell'edizione precedente, quello
del '65 sarebbe stato per molti alla vigilia il Tour di Poulidor.
Anquetil, dopo cinque trionfi, quattro dei quali consecutivi, aveva
deciso di non essere della partita per concentrarsi sull'unico grande
obiettivo che ancora gli mancava, il mondiale, lasciando il via
libera al rivale. Quell'anno però comparve sulla scena un certo
Felice Gimondi, convocato in extremis dalla Salvarani per fare da
spalla al capitano Adorni, fresco vincitore del Giro. Il bergamasco,
sfruttando i problemi di tendinite del suo capitano, prese a sorpresa
la maglia gialla al termine della quarta tappa a Rouen, la città di
Anquetil, mantenendola per quasi tutte le restanti frazioni. Poupou
provò a mettergli i bastoni tra le ruote vincendo la prima delle tre
cronometro in programma e la tappa con arrivo sul Mont Ventoux, ma
l'italiano strinse i denti, resistette ai suoi attacchi e riuscì
addirittura a vincere le due cronometro successive, di cui l'ultima,
da Versailles al Parco dei Principi, che divenne l'emblema del suo
trionfo. Si narra che quella sera, nel suo castello, Anquetil avesse
brindato con lo champagne alla nuova sconfitta del rivale.
Nel
1966 Poulidor fu ancora protagonista, ma il trionfo fuggì ancora
perché il suo antico avversario, fedele alla promessa che si era
fatto qualche anno prima, fece nuovamente di tutto per impedirgli di
vincere. Durante la diciassettesima tappa con arrivo a Torino,
Anquetil mandò all'attacco il compagno Lucien Aimar lungo la discesa
della Colletta. Lo scalatore della Provenza, ben posizionato in
classifica dopo un'altra fuga portata felicemente a termine sui
Pirenei una settimana prima, conquistò due preziosi minuti su tutti
i favoriti grazie alla rete che il vecchio capitano aveva tessuto
alle sue spalle; in pratica tutti i favoriti erano rimasti in
marcatura su Anquetil,
che a sua volta aveva appositamente
rallentato l'andatura per creare il maggior divario possibile tra gli
attaccanti e gli inseguitori. L'azione ebbe il merito di far fuori
tra gli altri Poulidor, ormai troppo staccato in classifica, mentre
Aimar, che quella sera indossò la maglia gialla, vinse praticamente
lì il suo Tour. Fu l'ultimo scherzo che il vecchio re giocò al
contadino dato che, al termine della diciannovesima tappa, quando i
giochi per la classifica generale erano ormai fatti, si ritirò dando
per sempre il suo commiato dal Tour de France.
Raymond,
giunto sul terzo gradino del podio, quell'anno fu protagonista di un
altro fatto singolare. A Bordeaux, vigilia della nona tappa, si era
sparsa la voce che nel giro di qualche minuto sarebbe stato
effettuato a sorpresa il primo test antidoping della storia del Tour.
Tutti i ciclisti abbandonarono in fretta e furia gli alberghi per
sviare i controlli, mentre il primo a sottoporsi fu proprio Poulidor.
Stava passeggiando in abiti borghesi lungo i corridoi della struttura
che ospitava la sua squadra, quando due uomini l'avvicinarono
mostrando delle carte.
«Sei
un corridore del Tour? - gli domandarono trovando la reazione confusa
di Raymond. - Allora vieni con noi».
Fu
portato in una stanza e obbligato a fare pipì in una bottiglia che
poi venne chiusa senza una tenuta particolare. Gli chiesero nome e
data di nascita, senza verificare la sua identità; avrebbe potuto
essere chiunque, così come avrebbero potuto fare qualsiasi cosa con
quella bottiglia. Altri corridori nel frattempo furono fermati, tra
cui Van Looy: alcuni vennero obbligati a svolgere all'esame, mentre
qualcuno si rifiutò. L'indomani i ciclisti inscenarono una veemente
protesta trascinando la propria bici a mano durante i primi
chilometri della tappa, finché la mediazione di Goddet riuscì a
farli desistere.
Nel
biennio '67-'68 il Tour tornò per una breve parentesi a squadre
nazionali, ma il progetto si rivelò fallimentare. Gli interessi
economici e sponsoristici fecero sì che diversi atleti obbedivano
ancora alle gerarchie dei propri club, aiutando vecchi compagni
appartenenti a nazionali rivali. Non fu il caso di Poulidor che nel
'67, dopo essere uscito di classifica a causa di una caduta sul
Ballon d'Alsace, sostenne magistralmente Roger Pingeon e l'équipe
francese per conquistare la corsa. L'anno successivo un altro
incidente causato da una moto al seguito della corsa che gli tagliò
la strada l'obbligò al ritiro, facendogli perdere una grande
occasione; l'olandese Janssen infatti, incoronato al Velodromo di
Vincennes che da quell'anno aveva preso il posto del Parco dei
Principi come grande epilogo del Tour, sarebbe stato sicuramente un
avversario alla sua portata.
Il
tempo delle opportunità per Poulidor era scaduto, dato che nel 1969
comparve sulla scena del Tour un nuovo fenomeno, Eddy Merckx,
determinato quell'anno a recuperare immediatamente la propria
immagine dopo l'esclusione un mese prima dal Giro d'Italia per una
positività ad un anfetaminico. Il belga dominò la corsa, rifilando
qualcosa come diciotto minuti a Pingeon e ventidue a Poulidor,
acquisendo proprio in quella circostanza il soprannome di "Cannibale"
dal giornalista Christian Raymond.
Poupou
sarebbe finito ancora terzo nel 1972 alle spalle di Merckx e Gimondi,
prima d'assistere dal secondo gradino del podio alla cinquina del
"Cannibale" nel 1974, mentre nel 1976 avrebbe salutato il
Tour con un terzo posto, quando anche la stella di Merckx si era
ormai eclissata.
I
suoi numeri alla Grande Boucle sono impressionanti: nelle dodici
edizioni concluse, ha terminato otto volte sul podio - tre volte
secondo e cinque volte terzo - giungendo per undici occasioni nella
top ten. Non è andata meglio ai mondiali, dove è salito per quattro
volte sul podio senza mai primeggiare in nessuna delle diciotto
edizioni a cui ha preso ininterrottamente parte dal 1960 al 1977.
Curiosamente non ha mai disputato il Giro d'Italia, in quanto la
Mercier, azienda francese produttrice di biciclette, non aveva
interessi economici o pubblicitari nel Bel Paese.
Ma
un dato incredibile contraddistingue la carriera di questo soldatino
del pedale. Poulidor non ha mai indossato, nemmeno per una semitappa,
la maglia gialla, pur sfiorandola in tantissime circostanze.
Sceso
dalla bici alla fine della stagione 1977, divenne ospite fisso
assieme ai vari Géminiani, Altig, Stablinski e Ocaña delle feste
organizzate nella 'Villa degli Elfi', la reggia di Anquetil. A quel
tempo l'antico fuoco della rivalità si era ormai spento e in quelle
occasioni Raymond, tra grandi bevute e partite di poker che si
protraevano per tutta la notte, ebbe la sua rivincita su Jacques.
«Non
so perché, ma capivo ogni volta che Jacques bleffava» racconta
ancora oggi quando, sui traguardi del Tour, finge
di riconoscere una faccia riemersa da una strada, da una corsa, da
chissà dove.
Il
suo amico Jacques ormai l'ha abbandonato da tempo. Quando nel
novembre del 1987 andò a trovarlo sul letto di morte, sfiancato da
un inguaribile tumore allo stomaco, non seppe proprio cosa dire. Ci
pensò Jacques, pieno di flebo ma lucido:
«Vedi?-
sospirò con un ghigno dipinto sul volto. -Anche questa volta sei
arrivato secondo».
Raymond
uscì alla svelta dalla stanza per non far vedere che stesse
piangendo. Una parte di lui se ne stava andando per sempre.


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